Un episodio di vita quotidiana mi ha dato lo spunto per scrivere questo articolo. In Sicilia il salone del barbiere è una sorta di “spazio sacro” rispetto al profanum della vita quotidiana e chiunque vi entra si sente libero di poter confessare i peccati degli altri. Quel sabato pomeriggio, a “messa” dal barbiere “l’omelia” verteva su degli arresti avvenuti qualche giorno prima nel mio piccolo paese dove abito, sui nuovi assetti mafiosi delle cosche catanesi e siracusane e sul nuovo capo mandamento individuato dagli inquirenti. Mentre si discuteva di tutto ciò, dal fondo del salone, un anziano signore che aspettava il suo turno emetteva il suo giudizio sapiente: “lo Stato, la politica, la democrazia non funzionano perché la società, noi cittadini non funzioniamo”. Ecco, in una battuta l’anziano signore “scardinava l’universale Stato”, “decostruiva” la rappresentazione dello Stato come realtà-in-sé separata dalla società, faceva sua, inconsapevolmente, l’idea di un volume considerato fondatore dell’antropologia politica, secondo cui “lo stato moderno non esiste in sé nel mondo fenomenico ma esistono individui che vivono in società” (African Political Systems, antologia curata dagli antropologi Meyer Fortes e EE Evans-Pritchard). Dal punto di vista antropologico non esiste l’io, il soggetto, l’individuo-in-sé trascendentale e metafisico in quanto l’agente sociale è “prodotto”, da una parte, dal potere disciplinare dello Stato esercitato attraverso i dispositivi di potere (Michel Foucault) e dall’altra, attraverso “l’interiorizzazione” di tali dispositivi e atti di stato da parte del soggetto stesso, (gli “habitus” di cui parla Pierre Bourdieu). Lo Stato forma la soggettività, produce soggetti sociale e la società civile, ma la società civile ri-produce a sua volta lo Stato incorporando e cambiando “gradualmente” habitus e dispositivi, il regime statale di verità: Bisogna considerare lo Stato non come una realtà “personificata”, separata dalla società, ma come un “fatto sociale” ovvero come “consenso collettivo”, come “spazio sociale” in cui interagiscono Stato e società civile. Dal punto di vista antropologico il soggetto sociale, non essendo un io-in-sé trascendentale e metafisico, si trova sempre “situato”, “gettato” in una ambiente “abitativo”: “abitare” antropologicamente significa interiorizzare, incorporare degli habitus, assoggettarsi all’ambiente culturale. Se la politica “locale” produce dispositivi ed habitus che indirizzano le nostre scelte e le condizionano, qual è il nostro reale ambito di libertà se veniamo non solo “assoggettati” o “desoggettivizati” ma addirittura “inglobati” nel sistema e prodotti come soggetti sociali da questo? Il soggetto è senza dubbio “assoggettato” alle regole dei dispositivi in cui è situato, ma nello stesso tempo può esercitare una certa resistenza, poiché, pur esistendo in virtù dei dispositivi che regolano e supportano le sue pratiche, è ritenuto ”libero” e quindi relativamente autonomo e in grado di poter elaborare delle strategie di risposta alle prestazioni che il potere esige da lui (Giorgio Agamben). Per evitare l’“inglobamento” nel sistema ed operare una svolta antropologica che porti gli abitanti-locali ad un passaggio da “soggetti governati” a “cittadini attivi”, occorre rendersi estranei allo spazio sociale condiviso, ovvero agli habitus universalizzanti, prenderne le distanze. Questa via, come sottolinea l’antropologo Francesco Remotti, «coincide con la capacità dell’individuo di sottrarsi in qualche modo al potere dei costumi…di liberarsi della loro presa. […] In Montagnie la liberazione dai costumi si traduce in un fenomeno importante…ossia la formazione, nelle diverse culture, di una sorta di piano metaculturale, disponendosi sul quale gli individui prendono le distanze dai propri costumi, si dotano di una capacità di riflessione (critica) su se stessi e sulla propria cultura. […] Montagnie ci indica così la formazione di un piano metaculturale: un piano di relativa libertà, di riflessività, di presa di distanza critica, di conoscenza di possibilità alternative». La sfida oggi è quella di “imparare ad abitare” da “stranieri residenti” cosa che sul piano antropologico si traduce nel superamento degli habitus locali per costruire un piano metaculturale e controculturale che rappresenti la diversità della “cittadinanza attiva” rispetto all’essere governati, diversità, estraneità dei cittadini attivi che con la loro presenza interrogante e operante, porti tutti gli abitanti ad assumere una postura sociale attiva per poter modernizzare la stessa realtà locale.
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