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Identità e memoria tra la storia narrata e la storia basata su criteri scientifici: a colloquio con

Prima delle identità ci sono i cittadini, in quanto persone. Perché le identità nazionali in generale, quella italiana in particolare, sono costrutti artificiali e spesso fuorvianti. Lo sostiene Francesco Filippi nel suo ultimo saggio “Prima gli italiani! (si ma quali?)” (Laterza editore), da poco edito. A Filippi, storico e divulgatore, autore di “Mussolini ha fatto anche cose buone: le idiozie che continuano a circolare sul fascismo” (Bollati Boringhieri) ha scritto nelle prime pagine di “Prima gli italiani” che il suo saggio nasce da un disagio.

“Il disagio parte da lontano – spiega Filippi – da quando a livello professionale ho iniziato a occuparmi di documentazione e divulgazione a carattere storico. Con l’associazione di cui faccio parte, Deina, ci occupiamo di viaggi di memoria, a cominciare da Auschwitz: all’interno di questi viaggi ho avuto la fortuna, alla soglia dei quarant’anni, di confrontarmi con le generazioni successive alla mia. Noi degli anni ‘80 siamo la prima generazione che ha vissuto la “Giornata della memoria”. Gli studenti di oggi sono completamente immersi nella struttura di questo tipo di memoria della Shoah: nonostante ciò ho notato esserci diversi problemi sulle informazioni storiche. Da storico ho scoperto che esistono diversi canali, anche social, dove si parla di storia, ma c’è una discrasia tra la storia degli accademici, quelli che si basano su criteri di scientificità, e “la storia” narrata e diffusa su quei tipi di canali”.

Tra i due tipi di storia quale prevale? Quella delle narrazioni. Oggi si parla tantissimo di storia. Circolano quasi troppi libri di storia: ma chi fa il “mercato” della storia non sono gli storici di professione.

Il rischio qual è? Che la storia venga strumentalizzata a livello politico, perdendo la sua vera funziona di essere memoria oggettiva del passato.

Che fare per contrastare questa tendenza? Esiste un movimento di storici legati al sito www.lastoriatutta.org, storici freelance che non fanno parte dell’accademia. Bisogna trovare altre strade, in maniera liquida, per arrivare a ricostruire un rapporto tra i fruitori della materia storica e i produttori di interpretazione storiografica.

Nel suo ultimo saggio il tema dell’identità, evidentemente, è centrale. Ma cosa significa per lei “identità”? Uno dei problemi sistemici degli studi storici è che per troppo tempo sono stati impermeabili agli aiuti di altre esperienze culturali. Personalmente sono stato accusato di usare troppa sociologia. In realtà, come studioso delle scienze umane, sfrutto molto volentieri questo tipo di aiuti. Si tratta di indagare il medesimo oggetto: l’uomo. Lo storico lo studia nel tempo. Quindi il mio modo di proporre l’identità non è quello antropologico, ma mi occupo dell’identità di una comunità. Ovvero: i motivi per cui una data comunità si riconosce all’interno di uno schema di valori più o meno condiviso. Si tratta di “comunità immaginate”, come le definiva Benedict Anderson: un gruppo di persone che ritiene di avere una medesima esperienza. Fenomeno antico, sin da quando eravamo delle scimmie nella savana, ma evidente nelle strutture sociali molto complesse quali sono gli Stati e le nazioni.

Partiamo dall’origine del termine “Italia”: nel saggio la fa risalire al modo in cui i greci chiamavano gli abitanti della Calabria: “oi italoi”, ovvero adoratori di vitelli. Non pare molto nobile come origine… Ho riportato quelle che secondo i linguisti sono le ipotesi più accreditate: ma l’origine di “adoratori di vitelli” per me, come storico della mentalità, va letta come veicolo di cultura. Per secoli i greci e i fenici hanno considerato coloro che abitavano il sud di quella penisola come “adoratori di vitelli”. Gente dedita alla pastorizia: nella talassocrazia greca era un segno di inferiorità. Ma era limitata ad una piccola popolazione che viveva circa 3000 anni fa a sud di Catanzaro. Questa definizione però nel tempo ha subito un allargamento: la gente di quella penisola con il tempo ha iniziato a chiamare sé stessa “oi italoi”. Da qui al Piave il termine “italiani” ha poi fatto molta strada!

Facciamo un balzo in avanti: 1861 e unità d’Italia. Lei la ricostruisce come una “annessione allo Stato sabaudo” più che una vera unificazione: da qui i vari problemi nello stabilire una visione unitaria della “comunità immaginata”. Ma nell’unità d’Italia c’erano anche valori democratici e egualitari: che fine hanno fatto? Che fine vogliamo far loro fare. Ci furono infatti vari binari su cui venne costruita l’unità. Tra ‘700 e ‘800 un gruppo minoritario si è messo a costruire, in vari luoghi del continente europeo, dei processi di amalgama delle popolazioni. Come nel caso della rivoluzione francese. In Italia la struttura di base, le radici per costruire l’Italia sono ben chiare a un gruppo ristretto di intellettuali chiusi all’interno di meccanismi che sovrastano il 95% della popolazione. Quando nel 1861 prevale una delle tante idee di Italia, quella “con in mano la pistola”, si corse a puntellare quella narrazione. Sono i nazionalisti a creare le nazioni e non viceversa. Emblematico è il caso di Giuseppe Garibaldi, presentato come il padre della patria, ma che in realtà aveva in animo di battersi per la libertà e autodeterminazione di vari popoli. Quello che colpisce è il carattere “tecnico” con cui si costruisce l’Italia. Ci si chiedeva: di cosa abbiamo bisogno per costruire la nazione? E allora nelle scuole di tutta Italia si iniziò a insegnare la storia dei Savoia, come riferimento fondativo e dall’altra si esalto la città di Roma, unica che aveva veramente dominato tutti i territori unificati dopo il 1861.

Arriviamo ad oggi: la bandiera italiana la tiriamo fuori per i mondiali di calcio o nei primi tempi della pandemia per dire “andrà tutto bene”. L’italianità dunque è legata più a percezioni affettive che a dati oggettivi? Ritengo che la bandiera in pandemia, scomparsa molto velocemente, è simbolo dell’ennesimo fallimento dell’idea di unità applicata al nostro Paese. L’ultimo grande afflato nazionalista lo ha portato Mussolini, frutto della prosopopea fascista. Per decenni invece sono prevalse sub-identità nazionali come l’identità politica delle regioni rosse o quelle bianche. Il 1992 e i mondiali di calcio segnano la prima volta che il tricolore viene esposto ed esaltato anche dai non fascisti. Afflato emozionale che subentra proprio nel momento in cui entra in crisi la politica. Il calcio ci ha “emozionare tutti assieme”: ed uno dei momenti più bassi della politica italiana è quando essa prende a prestito questo afflato emotivo e prepolitico con lo slogan “Forza Italia.

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