Una realtà che nel nostro tempo non manca di essere mai invocata nelle relazione educativa è l’educazione della coscienza. Non esistono articolazioni della società civile, ambiti sociali, politici, culturali, educativi, religiosi, mediatici in cui non si faccia appello alla coscienza. Educare le coscienze, sensibilizzare le coscienze, formare le coscienze sono gli appelli che vengono da tutte le parti e che, spesso, hanno come destinatari i giovani. Il rischio che si corre, con questi appelli, è quello di considerare la coscienza una sorta di “scatola” dentro la quale depositare norme e divieti, che, nei fatti, nessuno segue o è disponibile a seguire. Ecco perché oggi, nel tempo del web, appare quanto mai fondamentale e necessaria una “ri-comprensione” e una riaffermazione del primato della coscienza sia per evitare di ridurre la coscienza ad una semplice dimensione psicologica della persona che condiziona nel bene e nel male il suo agire, sia per evitare di trasformarla in un giudizio morale pratico, vale a dire in una applicazione della norma etica al caso particolare concreto. Non è superfluo, anzitutto, domandarsi, che cos’è la coscienza, come agisce e come reagisce. Il termine coscienza, che deriva dal latino “cum-scientia”, cioè con scienza, conoscenza, è una facoltà spirituale tipica dell’uomo ed è presente in tutti , anche se non sempre come coscienza vera e retta. Nella nostra società, nei rapporti umani non manca di sentire espressioni comuni del tipo: “avere un peso sulla coscienza”, “avere la coscienza a posto”, prendere coscienza di”, “agire secondo coscienza”, “mettersi una mano sulla coscienza” Si tratta di espressioni che alludono ad un concetto di coscienza intensa come un “senso” o una “voce” interiore che rende la persona consapevole delle ragioni e delle conseguenze delle sue scelte. Se i nostri sensi ci guidano e ci danno la misura della nostra collocazione nel mondo fisico, allo stesso modo la coscienza ci guida e ci dà la misura della nostra collocazione e del nostro agire nel mondo morale. La coscienza dei giovani, al tempo del web, sembra certamente vivere un forte smarrimento di senso, è oggi continuamente sottoposta ad input, pressioni e stimoli, donde la necessità di una educazione che ne riscopra il valore come volto interiore dell’uomo, se è vero – come afferma Siracide 13,25, che “il cuore dell’uomo si riflette nel volto” . Nella Bibbia, infatti, pur non trovandosi un termine specifico per indicare la coscienza, esiste un concetto di coscienza legato al valore del “cuore” come sede dei pensieri, dei desideri, delle emozioni e del giudizio morale, quindi della coscienza. Per la cultura cristiana Dio ha scritto la sua legge “nel cuore dell’uomo”(Ger 31,29-34; Ez 14,1-3 e 36,26); Dio “scruta il cuore” e la mente, e loda e biasima gli atti che lui compie(Gb 27,6). La ri-comprensione della coscienza cristiana va allora definita non a partire da una legge ma da un “cuore” che sa discernere il suo operato. Sulla stessa linea si muovono sia il Nuovo Testamento sia il Concilio Vaticano II; quest’ultimo al n. 16 della Gaudium et spes afferma: “Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell’intimità del cuore: fa questo, evita quest’altro. L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato . La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità. Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge che trova il suo compimento nell’amore di Dio e del prossimo”. Stando a questo efficace e splendido insegnamento del Vaticano II, occorre educare i giovani in particolare a comprendere che la coscienza deve essere percepita e ricompresa come “luogo del dialogo”, “luogo di bellezza”, proprio perché è dentro questo luogo che ognuno ritrova se stesso, rilegge la propria storia, la vita, gli errori, le fragilità, le gioie e i dolori, il proprio rapporto con gli altri e con Dio. La coscienza ci fa percepire la bellezza del rimanere soli con noi stessi, come davanti ad un altare dove l’interlocutore principale è Dio amore, misericordia, accoglienza, che ci invita ad ascoltarlo nella libertà, prima di porre in essere una azione. In un tempo come il nostro caratterizzato da urla, frastuono, sospetto, violenza, finzione, corruzione, lamentazioni che alimentano una sorta di “coscienza collettiva” al negativo ove bene e male diventano interscambiabili, bisogna aiutare i giovani a saper riscoprire e rileggere la coscienza – direbbe Platone nel suo dialogo Teeteto – in chiave di “dialogo interno dell’anima con se stessa” o, direbbe S. Agostino, come luogo di ricerca della dimensione veritativa: “Non uscire da te, ritorna in te stesso, nell’interno dell’uomo abita la verità”(De vera religione, 39). Bisogna educare i giovani a sapere evitare di ridurre la coscienza ad un sentire arbitrario, come si trattasse di seguire – direbbe il cardinale beato Newman – la propria «preferenza personale» a prescindere da ogni autorità esterna; al contrario occorre far capire – sulle orme del Concilio Vaticano II – che quando l’esistenza dell’uomo si concepisce a partire dalla coscienza, ossia in una prospettiva di relazione tra Dio e l’anima; quando l’uomo si mette davanti al “sacrario della coscienza”, dove riscopre una legge che non è stato lui a darsi e dove Dio parla e lui ascolta, allora risulta palese che il primato della coscienza non rappresenta un cedimento all’individualismo né un abbandono nelle mani dell’arbitrarietà e del relativismo. Anzi si tratta proprio del contrario. Nella “ricomprensione” ed educazione della coscienza non si può sicuramente ignorare la riflessione teologico-morale, che ci dà alcune coordinate dentro le quali interpretarla: la rettitudine e l’opzione fondamentale. Ognuno persona ha il diritto e il dovere di obbedire prioritariamente alla coscienza personale, ma a condizione che essa sia correttamente informata, nel senso che sia consapevole della realtà delle cose e delle ragioni e delle conseguenze dell’agire, e che sia guidata dal solo bisogno di conoscere la verità nella libertà e senza costrizioni. Certo, è innegabile che tutto questo non è semplice e non accade concretamente, non se ne vedono gli effetti, tuttavia è compito dell’attività educativa in famiglia, nella scuola, nella chiesa, far comprendere che la coscienza retta ed onesta, nel suo significato autentico di dialogo dell’anima con Dio, non disconosce il vero fondamento dell’autorità del Papa e dell’insegnamento del Magistero. Una coscienza autonoma non è per nulla in contrasto con una coscienza teonoma, perché la legge morale che Dio suggerisce alla coscienza della persona non è qualcosa di esterno ad essa, ma qualcosa che la riguarda intimamente e che è in continua formazione anche con l’aiuto del cosiddetto “direttore spirituale”, che non è un dispensatore di ricette e soluzioni prefabbricate, ma una persona con una sapienza spirituale capace di guidare sulla via della verità e santità. Per concludere, credo che la “ri-comprensione” della coscienza esiga una chiara attenzione al concetto del suo “primato”, atteso che se si mettesse al centro della vita morale solo la legge, si correrebbe il rischio del legalismo, dell’esteriorismo e del fariseismo; se si mettesse solo la persona, si correrebbe il rischio del soggettivismo e dell’interiorismo e del relativismo. Ma se al centro dell’agire morale quotidiano si mette il primato della coscienza intesa come costante, attento, docile ascolto della Voce di Dio che ci parla e che ci invita a vivere la vita come risposta alla nostra vocazione, allora non si corre alcun rischio e, anche se si sbaglia, è sempre possibile ritornare a lui e chiedere il dono della sua misericordia.
top of page
bottom of page
Comments