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La contemporaneità tra individualismo e nichilismo

Cos’è la contemporaneità? Parafrasando Sant’Agostino, che parlava del tempo, si potrebbe dire che “se nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga, non lo so” (Agostino, le Confessioni, XI 14. 17.). Se si cerca di rispondere a questa domanda da un punto di vista temporale risulterà difficile poter definire in cosa consiste. È l’oggi? il presente? È quel periodo storico che gli storici in genere fanno iniziare con la rivoluzione francese? È il post-moderno? Forse è opportuno definire la contemporaneità dal punto di vista qualitativo: è quel tempo in cui il materiale prevale sullo spirituale, l’individuo sulla persona, il nulla sul senso, la paura sulla speranza, la conservazione sul cambiamento, il capitale e il profitto sulla redistribuzione solidaristica. Le coordinate della contemporaneità, individualismo e nichilismo, rendono il tempo presente incerto, segnato, oltre che dalla crisi delle certezze e dalla perdita dei fondamenti, dall’assenza della speranza. Le antropologie filosofie nichiliste ottocentesche hanno preteso di liberare l’uomo dal peso della speranza: secondo queste filosofie l’uomo è desiderio di senso ultimo, di un perché assoluto, ma dato che questo perché e questo senso ultimo, fondamento della realtà, non esiste (nichilismo), l’uomo soffre. La via di liberazione dalla sofferenza, nella prospettiva nichilista, consiste allora nel non cercare un perché, un senso-fondamento della realtà perché questo non c’è (Dio è morto), non c’è una causa del mondo ma tutto è frutto del caso. Sul piano esistenziale, per non soffrire dell’assenza del senso, bisogna o fuggire questo mondo nell’ascesi (Arthur Schopenhauer) o accettare la vita, la società così com’è (Friedrich Nietzsche) senza pretesa di cambiarla in quanto un mondo ed una realtà senza senso rende insensato dare una direzione, un senso al cambiamento. Verso dove andare e perché? Per il nichilismo tale domanda non ha senso.

Bisogna vivere la realtà cosi com’è senza nulla sperare, oppure se non la si sopporta la si può fuggire, ma mai cercare di cambiarla perché ciò ci farebbe soffrire in quanto la storia non ha una direzione da raddrizzare, un verso da seguire, viaggia alla cieca e questa “cecità” bisogna accettare e nella “cecità” bisogna saper vivere. E se questo desiderio di un perché permane nell’uomo in quanto lo costituisce? Se la speranza di una società diversa permane in quanto costitutiva dell’uomo? Per le antropologie nichiliste bisogna, per non soffrire di umanità, strapparsi con tutte le forze questo desidero e questa speranza infantile, andare oltre il proprio statuto ontologico di “homo sperans” e diventare un “oltre uomo”, un “transumano” adattato al presente dalle nuove tecnologie: bisogna avere la capacità e il coraggio di “vivere senza la speranza di un mondo migliore”. Ecco il fondamento filosofico della conservazione e del reazionarismo: il nichilismo (pessimistico o dionisiaco) che invita a vivere la vita alla cieca, nella “cecità” (si legga in questa ottica il romanzo di José Saramago, Cecità) senza nulla di diverso o di migliore da sperare (conservazione) perché “tutto ritorna” (reazionarismo). L’uomo forte, il “super uomo”, il “transumano” è colui che, capace di adattarsi più degli altri a questa vita così com’è, guiderà i deboli, coloro che ancora sperano in un domani migliore, in un senso della storia, in un perché della realtà, coloro che ancora vogliono semplicemente essere uomini, saziare il loro desiderio di senso. L’uomo forte cerca di “strappare” il desiderio umano con la “forza” di pensiero (il ruolo della filosofia per il nichilismo: inventare il nulla anziché Dio) o con la “forza” politica (il ruolo della politica per il nichilismo: la dittatura). La “fallacia nichilista” (Hans Küng) consiste nel dare come presupposto certo il fatto che tutto ciò che si desidera non esiste per il fatto che lo si desidera (Ludwig Feuerbach).

Ma perché ciò che desidero non può esistere per il fatto che è desiderato? Sul versante della speranza è come dire che nulla può cambiare se lo si spera, se spero in una società migliore questa non potrà mai inverarsi in quanto oggetto di desiderio: il desiderio e la speranza di una società migliore rende la stessa irrealizzabile in quanto non possibile, non possibile in quanto inesistente, inesistente in quanto sperata. Ma perché se desidero una società migliore questa non la si può realizzare per il fatto che la si spera e la si desidera? Siamo costretti all’accettazione della società del più forte perché desiderare un altro mondo è da deboli? Non si deve più desiderare, sperare e lottare per un “mondo altro ancora da venire”, per un “mondo altro migliore” ancora da costruire? Per le filosofie nichiliste la storia è giunta al capolinea, non c’è altro da desiderare, in quanto inseriti “già” dentro la fine in quanto non c’è più un fine della storia. Non c’è più viaggio, transumanza, esodo, nessun vagone della storia che scorre lungo i binari del tempo: la storia è finita, si è raggiunto il massimo, quella perfezione economica (il liberismo capitalista), quella perfezione di razza fondata sul sangue e sul suolo (patrie e confini), quella perfezione filosofica (il nulla nichilista) proprie del super uomo che nulla più spera ma che tale perfezione agli altri impone come gesto liberatorio, trasformando le dittature in un gesto di liberazione dei più deboli, di quei deboli che ancora cercano un fine, un senso, un perché della storia attraverso cui sperare e lottare per un mondo migliore: l’omologazione di massa operata dai poteri forti è fondata sulla filosofia nichilista che relega l’uomo ad un eterno presente, ad un eterno “già” senza quel “non ancora” migliore da venire e costruire, ricercato dal cuore umano. Il nichilismo ha strappato via dall’uomo il suo cuore riducendolo a razionalità e funzionalità quando l’uomo-umano, a differenza del super-uomo, è invece oltre che ragione e ragionevolezza anche sentimenti, emozioni, intuizione, fantasia, desideri e speranza (Hans Küng): desideri e speranza in un mondo migliore oltre l’eterno presente da “fuggire nell’ascesi” o da “accettare aldilà del bene e del male”

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