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Immagine del redattoreAlberto Piccioni

Migranti: invisibili e segregati, un costo per la società

Intervista a Paolo Boccagni, docente di sociologia all’ Università di Trento: “I tagli sull’accoglienza dei richiedenti asilo non fanno risparmiare. Magari illudono di spendere meno ma ci mettono poco a creare più marginalità, più rischi di devianza, meno senso di umanità e più paura, noia, solitudine
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L’invisibilità non paga. I tagli sulla accoglienza e la segregazione residenziale dei richiedenti asilo non solo sono modi per non far integrare i migranti, ma sono anche antieconomici. E’ quanto emerge da uno studio sociologico, in forma di narrazione, scritto da Paolo Boccagni, professore ordinario di sociologia all’Università di Trento. ‘Vite ferme’ (Feltrinelli) è il titolo del saggio, nato dopo una lunga e paziente permanenza in una residenza per migranti.


Quali sono state le sfide e le scoperte più significative durante questo processo?

Vite ferme nasce dal tempo che ho avuto il privilegio di trascorrere in un centro di accoglienza, da ospite di chi vi veniva ospitato. Grazie ai migranti e agli operatori ho potuto avvicinarmi all’esperienza della vita in attesa, in una bolla di protezione che risponde ai bisogni primari ma non all’esigenza di costruire nuovi progetti di vita, oltre l’incertezza del presente. Di cose ne ho scoperte parecchie. Una, forse non banale, è che sapevo poco delle storie e delle vite di queste persone. Ci sono ostilità, discriminazioni e pregiudizi, ma anche la fatica delle sofferenze vissute, delle aspettative disattese, della vita da rifare. C’è tanto tempo vuoto, potenzialmente a disposizione, e pochissima possibilità di controllarlo”. 


Quali raccomandazioni emergono dal suo lavoro per affrontare meglio le sfide dell'integrazione?

Il libro non parla di immigrazione in senso stretto. E’ una raccolta di storie di vita di giovani uomini, per lo più neri e africani, che sono anche richiedenti asilo. Nasce dall’idea che mettere al centro l’umanità di ciascuno, e i contorni della vita quotidiana di tutti, possa ridurre qualche distanza e sgretolare qualche schema preconcetto. Vite ferme ha un taglio deliberatamente narrativo, più che ‘prescrittivo’. Chiunque lo legga, però, credo potrebbe arrivare alla stessa conclusione: i tagli sull’accoglienza e la segregazione residenziale dei richiedenti asilo non fanno risparmiare. Magari illudono di spendere meno e raccogliere qualche voto in più, ma ci mettono poco a creare più marginalità, più rischi di devianza (e di relativa repressione), meno senso di umanità e più paura, noia, solitudine. L’invisibilità non paga. Le persone migranti non se ne andranno soltanto perché si cerca di tenerle fuori dal quadro della vita collettiva. Al massimo staranno peggio di prima e contribuiranno, nel loro piccolo, a far crescere l’ansia, l’incertezza e il rancore di tanti, di tutti i colori di pelle”.


Quali miti o stereotipi sul fenomeno migratorio si possono sfatare attraverso il suo lavoro?

Mi piacerebbe che il libro contribuisse a far vedere le persone e le loro storie, prima delle etichette che portano o dei problemi che hanno. C’è un certo grado di attenzione pubblica, con molte oscillazioni emotive, per gli sbarchi, ma poco o nulla su quello che succede dopo, l’inizio di una nuova vita che, purtroppo, non sembra troppo diversa da quella vecchia. Il mito che vorrei sfatare è l’esistenza stessa del fenomeno migratorio come entità a se stante: una massa indifferenziata, minacciosa, ontologicamente diversa dalla popolazione locale. Esistono, invece, percorsi e incroci di persone che, anche quando portano con sé paure, povertà e progetti di famiglie e comunità intere, hanno una loro soggettività. Ogni stanza del centro ospita una storia che non si sovrappone automaticamente con tutte le altre. Sono persone per lo più giovani che inseguono gli stessi sogni e modelli di tanti loro coetanei, con diritti, risorse e opportunità radicalmente inferiori”.


C’è un certo grado di attenzione pubblica, con oscillazioni emotive per gli sbarchi ma nulla su quello che succede dopo. Il mito che vorrei sfatare è l’esistenza stessa del fenomeno migratorio come una massa indifferenziata, minacciosa, ontologicamente diversa da noi

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