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RACCONTARE LA MALATTIA: ETICA E MEDICINA.

Ne parliamo con Lucia Galvagni, ricercatrice presso la fondazione Kessler

Proviamo a restituire alla parola, nell’ambito clinico e nei luoghi di cura, lo spazio che le è dovuto, per continuare a crescere in consapevolezza e umanità”. Sono le due ultime righe del recente saggio di Lucia Galvagni, ricercatrice presso la Fondazione Bruno Kessler: “Narrazioni cliniche: etica e comunicazione in medicina” (Carocci editore).

A Galvagni, dottoressa in Bioetica, esperta in etica clinica e filosofia della medicina, abbiamo domandato perché ha scelto la narrazione per affrontare il rapporto medico paziente? Perché il modo in cui i pazienti raccontano una malattia è tendenzialmente narrativo. È raro si parli delle storie di malattia in un modo diverso dal “raccontare”: certo il clinico, il medico, fa l’anamnesi. Ma essa non è che una parte di ciò che accade. Soprattutto però le narrazioni sono molto ricche di elementi morali. Avevo l’impressione che a partire da esse potessi cogliere meglio gli orientamenti morali dei pazienti, dei medici e delle organizzazioni sanitarie. Personalmente infine per entrare nei casi clinici e nelle vicende dei pazienti mi sento più a mio agio nel raccogliere indicazioni dalle narrazioni invece che dai dati. In fondo è il tipo di approccio della bioetica che lo richiede: è necessario cogliere la ricchezza della vita che sta dentro le storie personali. Quindi sta dicendo che quando si parla di bioetica occorre abbandonare un approccio di tipo “oggettivante”: non si possono trattare i pazienti, le persone, come oggetti da osservare solo dal punto di vista scientifico? In effetti si deve evitare di categorizzare pazienti e curanti. I linguaggi sono diversi: più esistenziale quello del paziente e più oggettivo quello del curante. Ma nella sostanza è necessario sradicare l’idea che ci sia un soggetto che osserva, il clinico, e uno osservato che è il paziente. In realtà se si rimette al centro la dimensione della “parola”, in senso più filosofico, il momento della cura diventa più relazionale. Il giudizio clinico può trasformarsi in un’occasione di incontro tra la persona malata e quella che la sta curando. Come va interpretato il coinvolgimento, anche emotivo, dei medici o del personale sanitario in generale? Credo che proprio dopo questa pandemia sia emerso quanto il linguaggio esistenziale non sia più solo dei pazienti. Il personale medico con i malati di Covid si trova ad essere l’unico referente: non ci sono familiari, non ci sono visite esterne. Dunque l’empatia non è un accessorio nella relazione clinica? Normalmente tra il personale curante si dice occorra la “giusta distanza” dal paziente. Negli anni invece mi sono resa conto che il problema, sia per clinici che per pazienti, ma anche per familiari, non è creare la giusta distanza, quanto sviluppare la giusta prossimità. Bisogna cioè partire dall’empatia fino al punto in cui essa non impedisca la capacità di osservare con un filo di distanza la condizione clinica di una persona e le sue possibilità di sopravvivere. L’empatia si sviluppa come capacità di entrare nei panni dell’altro e nella sua storia.. Ma l’empatia è qualcosa che s’impara su testi di medicina? I pazienti vedono subito quanto un medico è empatico. Da uno sguardo un clinico può capire la situazione di un paziente. L’empatia è fatta di cose semplicissime: sentirmi prossimo ed avere la sensibilità di capire la situazione dell’altro. Le terapie intensive oggi sono al centro dell’attenzione: che tipo di relazione si può stabilire con il paziente in queste di condizioni? La terapia intensiva è uno dei capitoli dove capire meglio cosa può fare la medicina oggi. Qualcosa fuori dell’ordinario: si è sempre in bilico tra la vita e la morte. Anche i clinici con grande esperienza e capacità affermano di non avere certezze su come andrà quando ricevono un paziente in quelle condizioni. La rianimazione del paziente, da quando è stata tecnicamente possibile, circa gli anni ‘50, ha rappresentato una tale evoluzione che si parla di “risuscitamento” del paziente. Gli inglesi usano il verbo “to resuscitate” per indicare la rianimazione. Significa che se un organismo non viene messo in quelle determinate condizioni le chance di recupero non ci sono. Il paziente tipo in terapia intensiva non è in grado di comunicare molto per cui i medici devono essere particolarmente attenti nel capire la sua condizione e entrare nella giusta empatia. Leggono il corpo, interpretando anche una piccola variazione nella respirazione, non osservabile con gli strumenti tecnici. La terapia intensiva ricorda la medicina come era una volta: un numero di pazienti limitato a cui si dedica molta energia. Il problema vero sorge quando le terapie non “resuscitano” il malato, ma lo tengono in una condizione di “limbo”. Proprio qui è necessario che i medici e i familiari si capiscano. È normale invece avvengano delle divergenze sul prolungamento o meno delle terapie. Spesso si chiama in causa l’etica, ma anche il diritto. A volte bisogna andare da un giudice, da un terzo, al di sopra delle parti. Nel saggio emerge che la metafora della guerra per indicare la cura delle malattie non molto le aggrada. Esattamente: non mi piace perché nei confronti dei pazienti rischia di essere molto pesante. Si può dare la sensazione al malato di essere il campo di battaglia. Ma non siamo in guerra, siamo in una situazione di cura, come sostiene un monaco di Bose, Guido Dotti. Non serve l’idea della “lotta al male”: se una persona prende il Covid non deve immaginarsi già intubata e sul punto di morte. Invece nella malattia è molto importante ricordarsi che noi siamo attivi: la malattia non è qualcosa che passa attraverso chi la vive e lo lascia in una condizione di passività. È fondamentale pensare che il tempo di malattia è un tempo di vita. Preferisco la metafora della resistenza a quella della guerra.

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