Umberto Curi
Il desiderio di possedere non è un male in sé e non servono moralismi e prediche inutili per evitare la brama del possesso. Meglio regole chiare e cultura “del limite e del giusto mezzo”. A sostenerlo è il filosofo Umberto Curi, professore ordinario di storia e filosofia all’Università di Padova, in un’intervista realizzata tempo fa, in occasione della sua partecipazione alla Cattedra del Confronto organizzata dall’arcidiocesi di Trento. Il tema era le “tentazioni” e a Curi è stato chiesto di parlare dell’avidità.
In quale misura è lecito parlare del desiderio di avere come di una “tentazione”?
Credo sia opportuno evitare un approccio moralistico. Nella storia della filosofia viene analizzata e spesso anche censurata, la “brama dell’avere” ma non ci si riferisce al desiderio di possedere. Quest’ultimo non è evidentemente disdicevole. Piuttosto è la sua esasperazione ad esserlo. Il più della volte assume la forma della pretesa di avere più di quanto sia giusto e necessario. Non credo sia corretta una riflessione sulla disposizione di avere in quanto tale: diventa disdicevole solo nel caso in cui essa vada oltre il limite e si configuri come una vera e propria patologia. L’avere è una propensione fisiologica. Di per sé uno stimolo alla crescita e a costruire qualcosa di significativo. Non credo sia immaginabile né desiderabile una condizione in cui non si avesse nessuno stimolo a possedere qualcosa. Perché è evidente che si arriverebbe ad un appiattimento totale della vita dei singoli e anche della collettività. Mentre certamente è criticabile la tendenza patologica a possedere. Possiamo prendere spunti da due autori: nella “Storia del Peloponneso” Tucidide disapprova e considera socialmente pericolosa la rapacità e avidità nel tentativo di accaparrarsi risorse. Per Platone invece in “La Reppublica” la pleonexia, smania di avere più del giusto, è quanto di più distruttivo e destabilizzante ci possa essere per la società. Possiamo rileggere anche l’Antico testamento e l’episodio che si trova nell’Esodo: il vitello d’oro. Considerato tradizionalmente una delle espressioni più compiute nella smania di accumulare ricchezza.
Una delle tentazioni a suo avviso può essere quella di trasformare le persone in “oggetti da avere”, confondere amore e possesso, amicizia e potere?
Nel quinto libro ”Etica Nicomachea” Aristotele commenta e critica questa tendenza esasperata di possesso e la vede come un estremo rispetto ad una attitudine, corretta, del “giusto mezzo”. Il desiderio di possedere non è un male in se stesso. Nella giusta misura è “neutro”, né buono né cattivo. Se ciò che muove non è la necessità o l’esigenza di procurarsi qualcosa che serva ed è utile, ma il desiderio di possesso in quanto tale, è evidente che non si potrà mai raggiungere una piena soddisfazione. Siamo di fronte ad un desiderio che si alimenta di se stesso. Possiamo evocare qualche riferimento iconografico: nel ciclo di Giotto, Cappella degli Scrovegni a Padova, l’avidità è rappresentata come una vecchia che brucia nei piedi ed ha una lunga lingua che gli si ritorce contro. Quasi a dire che c’è un’autocombustione dell’avaro costretto a soffrire per il suo stesso desiderio. Impossibilitato com’è ad appagarlo completamente.
L’alternativa “essere o avere” che riflessioni le suscita?
L’enfasi su questa disgiunzione e l’insistenza sulla necessità di non curarsi di avere preoccupandosi invece di essere, nel modo in cui è stata proposta negli ultimi anni, per lo più ha un’intonazione moralistica. Non pare però raggiungere alcun risultato: suona fastidiosamente come una predica che non cambia certamente inclinazioni, appetiti e desideri. Platone ha un approccio molto realistico su questo tema: è inutile predicare, magari ai giovani, di evitare la smania di avere. È connaturata e fisiologica e da un certo punto di vista non è negativa. Ha un carattere dinamico connesso con il processo della crescita. Per cui serve a poco l’esortazione a curarsi dell’essere. Sarà meno entusiasmante ed edificante, ma vedo più reale puntare sul senso del limite, della misura. Dove si assume come incancellabile la tendenza all’avere: solo che non si raccomanda l’impossibile, ma il tenerla entro certi limiti. Compatibili con la sopravvivenza della collettività e con un accettabile qualità morale dell’individuo. Eviterei qualsiasi colpevolizzazione, da cui non consegue alcun risultato positivo.
Cosa direbbe allora ad un buddhista che pratica la soppressione del desiderio o ad un monaco che si spoglia di tutti i suoi averi?
Hanno la mia massima ammirazione come ne ho per Francesco d’Assisi. È paradigma di un modo di concepire la vita. Ma Francesco credo fosse il primo a rendersi conto di proporsi come modello di Gesù stesso. Copia imperfetta. La santità è di pochi, non di molti e non può essere considerata una virtù sociale. Piuttosto che puntare alla santità si dovrebbe cercare quel che è raggiungibile: il giusto mezzo, il senso del limite, lo stare dentro le regole della vita associata. Quella di Francesco e di Gesù sono delle idee regolative, ma la loro vita e il loro esempio è raro.
Quei personaggi, asceti o profeti, che rinunciano ad avere, associano la loro scelta alla conquista della libertà: beato l’uomo che non possiede nulla perché è libero da qualsiasi vincolo.
Certo. Il loro è un vero processo di kenosis, svuotamento. Si rendono accoglienti a ciò che veramente conta, lo spirito, la Parola di Dio. Ho una grandissima ammirazione nei confronti di questa linea che però, proprio per non svilirla, va vista nel suo carattere individuale: non può essere virtù sociale. Bisogna poi rendersi conto che gli esempi ci fanno capire tutto lo scarto che esiste tra la nostra condizione e quella del modello: Gesù si è svuotato: lui era esempio, mai veramente riproducibile. Se ne parliamo poi come virtù sociale credo che nemmeno un buddista pensi di poter estendere la propria scelta ad ogni componente della società.
Questo uno dei motivi perché il comunismo ha avuto qualche problema nella realtà? Una buona idea, ma che possono praticare solo in pochi?
Volere la giustizia completa su questa terra, come pensava il comunismo, nella realtà si è rivelata una visione idolatrica. Proprio perché puntava troppo in alto.
Il popolo, “nel deserto”, se è troppo libero, troppo chiamato alla responsabilità personale, poi si costruisce un vitello d’oro?
Ci sono due narrazioni della consegna del decalogo da parte di Dio agli uomini. Mosè trascorse 40 giorni senza mangiare bere e dormire. Riceve le tavole incise direttamente da Dio. Torna dal suo popolo che però in quei 40 giorni ha preteso da Aronne la realizzazione del vitello d’oro. Allora Mosè frantuma le tavole, impone che vi sia una dura repressione dei Leviti che hanno voluto l’idolo. Poi ritorna sul monte e a quel punto Dio non consegna una nuova copia, ma detta a Mosé quel che deve incidere. Circostanza per cui le tavole di Dio sono andate perdute. E tra le due consegne del decalogo c’è il vitello d’oro. Riflettere su questo episodio: credo sia promettente per capire la tentazione dell’avere.
Lo avrebbe una antidoto all’avidità di certi personaggi ai vertici della società che già tanto hanno e ancora vogliono, magari intascando tangenti?
È necessaria la combinazione di due rimedi con la consapevolezza che non possono essere risolutivi. Ci vuole un lavoro sul piano culturale che non sia moralistico, ma tenda a far comprendere la non assolutezza dei valori dell’avere e quindi un approccio sanamente relativistico in grado di scoraggiare l’adozione del vitello d’oro. Poi occorre combinare tutto ciò con una rigorosa definizione di regole e di controllo della loro applicazione: la vera tentazione scatta quando mancano regole chiare e non esistono controlli. Così potremmo ricondurre la patologia entro limiti sopportabili.