Nell’antica grecia, l’epitafio era un discorso funebre pubblico pronunciato in occasione della sepoltura di un defunto. Il più antico epitafio a noi pervenuto è quello di Pericle riportato da Tucidide nel secondo libro della sua storia della guerra del Peloponneso:«La parola che adoperiamo per definire il nostro sistema politico è democrazia per il fatto che, nell’amministrazione, esso si qualifica non rispetto ai pochi ma rispetto alla maggioranza». Queste parole, attribuite da Tucidide a Pericle nel suo celebre epitafio, attestano la nascita nel mondo occidentale della “democrazia” (dal greco antico: démos, «popolo» e krátos, «potere», “governo del popolo” ), ovvero “quel regime politico nel quale il potere era totalmente nelle mani del popolo e in cui le decisioni venivano prese rispettando la volontà della maggioranza, espressa tramite regolari votazioni”. Per un ateniese, “ciò per cui mostrerà più attenzione, più passione, sarà la partecipazione attiva alla vita politica e giudiziaria della sua città”.
Ora, se da una parte è doveroso sottolineare il legame tra il regime democratico ateniese e le moderne democrazie, dall’altra parte è ancora più doveroso sottolinearne le differenze ricordando come la democrazia greca fosse una democrazia diretta mentre le nostre democrazie sono rappresentative. La democrazia è dunque quella “forma di governo che si basa sulla sovranità popolare e garantisce a ogni cittadino la partecipazione in piena uguaglianza all’esercizio del potere pubblico”, sovranità esercitata direttamente (democrazia ateniese) o indirettamente (democrazie moderne): rispetto alla democrazia antica che si configura essenzialmente come democrazia diretta, quella moderna si connota quindi in primo luogo come democrazia rappresentativa.
Il primo articolo della costituzione italiana recita:« L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». In questo articolo viene sancito che la sovranità appartiene al popolo e la esercita eleggendo i propri rappresentanti in parlamento o negli enti locali: democrazia rappresentativa. Ebbene, oggi si deve purtroppo recitare un epitafio nei confronti della democrazia rappresentativa che denuncia la “crisi della rappresentanza” come crisi, contemporaneamente, del “rappresentante” e del “rappresentato” e che porta di conseguenza alla disaffezione alla vita politica e alla ricerca dell’uomo forte al potere «veleno mortale per la democrazia rappresentativa, perché trasforma il “governo del popolo, dal popolo, per il popolo”,… in una “democrazia recitativa” dove i protagonisti sono il capo e la folla, l’uno sempre più dotato di potere, l’altra sempre più ridotta a moltitudine votante, plaudente e persino acclamante, ma del tutto priva di influenza sul potere e sulle decisioni del capo. […] (ma la cosa più grave è che) la democrazia recitativa come l’auto in folle su una giostra, gira continuamente su se stessa in una sorta di inerzia dinamica, e va avanti solo per tornare sempre indietro» (Emilio Gentile, Democrazia in folle, in domenicale del sole 24 ore).
Il fenomeno più esplicito che manifesta una tale “democrazia recitativa” è la vecchia ma sempre attuale e appetibile “politica delle mance” che rende gli abitanti di uno stato o di un qualsiasi comunità “soggetti governati” anziché “cittadini attivi”. I “soggetti governati” esercitano il diritto di voto per eleggere governanti che li renda liberi da qualsiasi responsabilità civica, sociale e politica, da qualsiasi esercizio di cittadinanza attiva. La conseguenza della “democrazia recitativa” fondata su “una politica delle mance” è la ricerca da parte del “soggetto governato-elettore” del favoritismo personale a discapito della collettività; ricerca di sicurezza sociale attraverso una protezione politica. “L’eletto-governante” a sua volta governa le insicurezze soggettive, a discapito del bene comune e della progettualità politica comunitaria, attraverso “la politica delle mance”.
In altri termini il “soggetto governato” non si pre-occupa del bene comune, della sicurezza sociale, ecologica, economica del territorio ma di quella personale; ciò favorisce il voto di scambio, il carrierismo politico, il disimpegno politico, la decrescita sul piano sociale, politico e culturale di intere realtà locale ed il passaggio informale ma pratico da una democrazia ad una oligarchia se non ad una vera e propria tirannia. Oggi da più parti si invoca un passaggio da una democrazia rappresentativa ad una diretta e partecipativa. Ma se i soggetti politici di una collettività continueranno ad essere dei “soggetti governati” che vivono di “mance” anziché “cittadini attivi” credo proprio che il problema non stia più soltanto nella crisi della rappresentanza e del rappresentante ma nel Demos: la crisi della democrazia non è dunque una crisi del Krátos o di sistema (democrazia rappresentativa o diretta e partecipativa) ma del Demos, è una crisi antropologica. La polis è in crisi perché l’antropos è in crisi: l’antropologia locale determina un sistema politico locale per cui non si può comprendere e migliorare quest’ultimo senza prima aver compreso e risanato l’antropologia locale. Se è vero che “tutto è politica”, è altrettanto vero che “tutto scaturisce dall’antropos”.
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