Il 27 gennaio 2021 si celebra la giornata mondiale della Memoria delle vittime della Shoah. La Memoria, nella sua accezione più pura, non deve essere intesa come semplice ricordo, ma come una testimonianza che proviene dal passato, per comprendere ancor meglio il presente, affinchè maturi, in particolare nelle giovani generazioni, il rispetto della dignità umana, per la creazione di un futuro più prospero. La Memoria, pertanto, non è solo storia, ma è anche quel piccolo tassello per la costruzione di un progresso autentico e favorevole dell’umanità.
La memoria, quindi, anche in dimensione pedagogica, non deve essere considerata come un mero esercizio personalistico e privatistico, ma una azione collettiva, affinché possa divenire “modello di vita” per l’intera società. È per queste considerazioni che l’ONU, in seguito alla risoluzione 60/7 del 1º novembre 2005, ha fissato il 27 gennaio di ogni anno, come data ufficiale della Giornata Internazionale di Commemorazione in Memoria delle vittime della Shoah, lo sterminio del popolo ebraico. Ma cinque anni prima l’Italia, precorrendo i tempi, con la legge n. 211 del 20 luglio 2000, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 177 del 31 luglio 2000, istituiva il “Giorno della Memoria in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti”, stabilendo, per la prima volta, che per il 27 gennaio, a partire dall’anno 2000 e per tutti gli anni a venire, fosse celebrata la giornata nazionale della memoria delle vittime dei campi di sterminio nazisti.]
Dato che le migliaia di campi di sterminio in Europa non furono liberati insieme, ma in tempi diversi (ad esempio, Buchenwald fu liberato l’11 aprile 1945, Bergen-Belsen il 15 aprile 1945, Mauthausen il 5 maggio 1945, ecc.), fu scelta la data di liberazione del campo più rappresentativo, nella storia del massacro nazista, quello di Auschwitz (anche perchè il primo campo ad essere liberato dagli alleati fu quello di Majdanek, vicino a Lublino, in Polonia, nel luglio del 1944), che avvenne proprio il 27 gennaio 1945, con l’ingresso delle truppe sovietiche della 60ª Armata del 1º Fronte ucraino, comandata dal Maresciallo Ivan Konev. Fu proprio quella scoperta di Auschwitz e le testimonianze dei sopravvissuti, che rivelarono compiutamente, per la prima volta al mondo, l’orrore del genocidio nazista. Ma rivolgendomi ai docenti delle discipline umanistiche, che per il carattere precipuo dei loro insegnamenti sono in prima persona interessati allo svolgimento di questo argomento, chiedo maggiore accortezza all’utilizzo dei termini, nel rispetto del dramma vissuto dal popolo ebraico e da tutte le altre vittime coinvolte da questo brutale obbrobrio (tra cui soldati, politici, preti, omosessuali, zingari, ribelli al regime, figli di un dio minore e tanti altri), ed evitare la parola olocausto. Si, perché l’uso di una parola sbagliata può fare la differenza, generando maggiori confusioni. Infatti spesso si è definita erroneamente, questa giornata, come celebrazione della memoria dell’”olocausto”. Questa definizione non fa per nulla giustizia agli ebrei, infatti l’unica parola che descrive in modo chiaro ciò che 12 milioni di persone (tra cui sei milioni di ebrei) hanno drammaticamente vissuto sulla loro pelle, è “Shoah”. Vediamo perché.
La parola Olocausto (dal gr. tardo holókauston, composto da hólos “tutto, intero” e di un derivato di kaíō “brucio”) si riferisce ad un rituale religioso arcaico, in uso, anche, nella cultura greca ed ebraica (secondo la tradizione giudaica, lo si attribuirebbe a Mosè), che comportava il sacrificio di una vittima (animale) che doveva essere bruciata interamente, infatti, il sacrificio dell’olocausto prevedeva che la vittima venisse completamente consumata dal fuoco sacro.
Nella Bibbia lo si trova nel libro dei Numeri, 28,3 “Dirai loro: questo è il sacrificio consumato dal fuoco che offrirete al Signore; agnelli dell’anno, senza difetti, due al giorno, come olocausto perenne”, e nel Levitico, 1 “Se la tua offerta è un olocausto di bestiame grosso, egli offrirà un maschio senza difetto; l’offrirà all’ingresso della tenda del convegno, perché sia accetto al Signore in suo favore”. Successivamente, nell’ultima metà del secolo scorso, per antonomasia, il termine “olocausto” lo si è riferito al genocidio perpetrato dai nazisti nei confronti degli ebrei d’Europa e di altre fasce della popolazione.
In tal senso, l’uso (inappropriato) del termine olocausto, individuerebbe nel popolo ebraico quella genìa da sacrificare, durante la seconda guerra mondiale. Al contrario, oggi è palese a tutti che ciò che subì quel popolo non fu un atto sacrificale, ma un vero e proprio massacro, studiato e pianificato, non per sacrificare sugli altari della storia un intero popolo, ma per un motivo assai più devastante, quanto molto più concreto e reale. Infatti, lo scopo di quella barbarie era di sterminare un’intera etnia, tant’è che a partire dalla fine del 1940 gli stessi nazisti definirono quella atroce azione, la “soluzione finale della questione ebraica” (in lingua tedesca Endlösung der Judenfrage), e con la conferenza di Wannsee (vicino a Berlino), il 20 gennaio 1942, furono decise le modalità con cui questa doveva essere eseguita. Dopo questo preambolo, vorrei sottoporre all’attenzione del lettore la testimonianza, che io diffondo dal 2014, di Mario Limentani (Venezia, 18 luglio 1923 – Roma, 28 settembre 2014), deportato del campo di sterminio di Mauthausen, che dal 2000 ho accompagnato, fino alla sua morte, in giro per le scuole di Palermo e d’Italia (prima del 2000 non aveva mai fatto alcuna testimonianza). “Passa Limentani, il romano, strascicando i piedi, con una gamella nascosta sotto la giacca” (da Se questo è un uomo di Primo Levi – 1958).
Così lo raffigura Primo Levi nel suo famoso libro e dopo cinquantacinque anni me lo trovo davanti a me, alto, robusto con un faccione roseo e allegro, si allegro. Quell’uomo che aveva subito sevizie e torture di tutti i tipi, si mostrava a me, il 27 gennaio 2000, allegro e ridente, ricco di battute scherzose e pieno di speranza, ma poi, nell’intimità della mia casa, il volto cambiava e la memoria, all’improvviso, esplodeva con racconti che terrorizzavano gli animi. A lui quelle cose non gliele avevano raccontate, ma le aveva vissute e viste. Aveva 18 anni quando fu arrestato a Roma, il 27 dicembre 1943, dalle guardie fasciste perché trovato senza documenti. A quella giovane età, il 5 gennaio 1944, fu deportato, per 18 mesi, nei campi di sterminio di Dachau, Mauthausen, Melk e Ebensee (sottocampi di Mauthausen). Così giovane aveva visto il fumo delle ciminiere dei forni crematori diffondere l’odore di bambini inceneriti, così come mi raccontava, aveva sentito le prime urla e poi il silenzio assordante della bimba di due anni, palleggiata e sballottata, come se fosse un pallone, dai calci degli SS, e poi tirata sul filo spinato, come pezza da piedi, e bruciare tra i fili della corrente. Subito dopo questo ricordo, calavano sul suo viso poche lacrime e la domanda era sempre la stessa: “cosa aveva fatto quella bambina per meritarsi tutto questo”. Mi raccontò dei pugni, dei calci, delle ore di bastonate, tali da avergli modificato i suoi connotati, mi fece rabbrividire quando mi narrò di quella volta che di notte, dopo un lungo cammino nel bosco gelido ed innevato, fu portato in una casupola e gli furono tolti, come chiodi conficcati nel legno, quindici denti per il puro gusto barbaro di un ufficiale delle SS ubriaco. E fu in quel momento che, ancora raccontava, iniziò a deperire fino ad essere buttato tra i cadaveri che dovevano essere infornati nel forno crematorio, ma per puro caso riuscì a salvarsi, grazie all’ingresso nel campo dei carri armati americani. Pesava 27 Kg e due etti e da tempo non si chiamava più Mario ma era diventato un “pezzo”, un oggetto, immatricolato con il n° 42.230, che doveva ripetere velocemente ed in tedesco.
E poi l’incubo, tra i tanti: “ogni giorno dovevamo scendere e salire 186 gradini con blocchi di granito in testa e, se le forze ti abbandonavano e cadevi, finivi giù dal burrone. Lì morivano tutti i giorni duecento, duecentocinquanta persone… Noi la chiamavamo la scalinata della morte mentre quelli delle SS dicevano che era il muro dei paracadutisti. Oltre cinquanta metri di altezza dal suolo”. Quella scalinata l’aveva scolpita nella mente, l’aveva metabolizzata, era diventata oggetto continuo dei suoi incubi notturni e faceva parte della sua futura esistenza, tant’è che quando mi fece scrivere la dedica sul libro che Grazia Di Veroli scrisse su di lui, “La scalinata della morte”, nel letto della sua malattia, a poche settimane dalla sua morte, così fece scrivere per me (non aveva più la forza di farlo da solo, ma riuscì a firmare di suo pugno): “A Pippo, al peggio amico mio (anche in quel doloroso momento riusciva a scherzare), sulla scalinata della morte, che in questi anni mi ha portato in giro per l’Italia, adesso lui andrà in giro al posto mio”.
Questa sua dedica è per me un impegno civile e vitale, per aiutare i giovani a capire come costruire un futuro di pace e prosperità, continuando a portare avanti quanto Mario mi ha insegnato. “Molte notti io mi sveglio e mi pare di stare lì. Mi pare di stare nel campo e vedere con gli occhi i maltrattamenti che hanno fatto ai miei compagni, quello che hanno fatto a me. È una cosa indimenticabile, non si può scordare, io vado per le scuole, porto i ragazzi a Mauthausen, non lo faccio per me ma lo faccio per il loro avvenire, per prevenire che un domani possa di nuovo succedere una cosa simile”.
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