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Rabbia e divertimento: ingredienti per la partecipazione politica. Intervista al docente universitar

Perché la politica torni ad appassionare  c’è bisogno di rabbia e divertimento: lo sostiene Emanuele Pastorino. Coautore di “Una idea disarmante” (a cura di Marta Villa, edizioni PeoplePub), Pastorino, 28 anni, laurea in giurisprudenza, si occupa di processi partecipativi, facilitazione di gruppi e processi di comunità ed è tutor nel master di diritto e politiche delle migrazioni all’Università di Trento. E’ Project manager insieme ad Alessandro Graziadei della piattaforma “Abitare la Terra”.

A proposito di processi partecipativi: partiamo da una vecchia canzone di Giorgio Gaber che definiva la libertà come partecipazione.

Certamente quella prospettiva è ancora attuale – risponde Pastorino – perché la libertà richiama diritti civili e partecipazione attiva dei cittadini, dall’altra parte sono oggi necessari una serie di altri passaggi. Michele d’Alena, un ricercatore che si occupa a fondo di questi temi, utilizza quattro categorie: la partecipazione ha bisogno di spazio, di tempo, di potere e di empatia. Spazio: per creare partecipazione bisogna essere, stare, in uno spazio. Ogni quartiere è diverso dall’altro e quel che fai in uno spazio fisico non va bene necessariamente per un altro. Tempo: significa perdere tempo nel costruire processi partecipativi, senza fretta e semplificazioni in nome dell’efficienza delle decisioni. Potere: riguarda di più la posizione gaberiana. Occorre capire qual è il potere a disposizione e si vuole cedere, distribuire, nell’agire: la partecipazione significa anche lasciare il potere da parte di qualcuno a favore di altri. Infine l’empatia: la postura in cui si sta in uno spazio. Gaber in quel testo tale postura la descriveva come il costante e insistente stare assieme alla gente, cercando sintonie. L’empatia in questi termini riguarda il divertimento: la possibilità che nel fare politica ci si possa anche divertire.

Ma perché possa esserci partecipazione il presupposto non è proprio la libertà?

Libertà è una parola che a volte mi mette a disagio: sono nato nel 1993, dall’anno dopo libertà in Italia è stata declinata in un racconto che non parla di libertà. A mio avviso la vera libertà è quella in grado di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale. Solo così si può pensare di costruire una società solidale e collettiva capace di garantire a ciascuno una serie di diritti. La parola libertà negli ultimi trent’anni ha segnato una egemonia culturale da parte di un certo pensiero. Personalmente preferisco associare sempre libertà e solidarietà.

Nei suoi recenti interventi lei parla anche di rabbia in politica: pensando all’attuale campagna elettorale dove dovrebbe esserci più rabbia?

Rabbia e divertimento sono due poli diversi, ma vanno tenuti assieme in politica. La rabbia in politica è sempre stata intesa in termini negativi: c’è un libro di Franco Palazzi “La politica della rabbia” che tratta approfonditamente di questo tema. La rabbia in senso positivo muove le istanze sociali, porta alle rivendicazioni dei diritti civili. Non si tratta solo di parlare “alla pancia”, come è stato fatto nell’ultimo periodo. Dobbiamo accogliere e interpretare le istanze sulle ingiustizie, quelle che vediamo ma non consideriamo o, peggio, strumentalizziamo. Queste istanze hanno un valore politico forte, molto più rispetto alla presunta pace sociale. La campagna elettorale attuale ha paura della rabbia, oltre a non rivolgersi alle giovani generazioni, a quei ventenni che in massa partecipano alle manifestazioni sui cambiamenti climatici, in organizzazioni come Fridays for future o Extintion Rebellion, nate dal basso. Questi giovani rivendicano, con rabbia, l’esigenza di cambiamento per fermare la crisi climatica attuale. I media, la politica in genere, hanno invece una grande paura della rabbia: è stato insegnato loro di starne alla larga. Pare loro che la rabbia non debba esprimersi e vada gestita e incanalata: dimenticando però che la lotta partigiana è nata anche dalla rabbia

Guardando quel che è successo in USA con Capitol Hill o all’assalto della sede CGIL a Roma non c’è da stare molto allegri sulle espressioni della rabbia.

Da questo punto di vista se la rabbia viene lasciata solo ai gestori della pancia, alla destra, e la sinistra non sa interpretarla, continuerà ad esprimersi nella modalità di Capitol Hill. Questo ovviamente è il male da evitare e lo facciamo solo interpretando la rabbia in senso costruttivo, non distruttivo

Parliamo del divertimento: etimologicamente la parola indica un “guardare altrove”, rivolgere lo sguardo da un altra parte, divergere: in che senso la politica deve guardare altrove?

l divertimento va inteso proprio nel senso di guardare le cose in modo diverso: è necessario prendersi cura di tutti in maniera radicale. Questo è “divergere”: accorgersi che il salario minimo non è più una istanza portata avanti da qualche gruppo di estrema sinistra, ma è una direttiva dell’Unione Europea. Questo è il significato “alto” della parola divertirsi in politica. Poi c’è quello più “ludico”: sono nato nel ‘93 in Liguria, ma ricordo, da bambino, le Feste dell’Unità. Quella dimensione divertente e conviviale, residuale in poche zone d’Italia oggi, serviva a stare seduti per terra e cercare assieme delle soluzioni ai problemi, bevendo una birra. Veniamo poi da anni di pandemia e il divertimento riguarda la possibilità di riprendere a coinvolgere le persone. Il divertimento è la chiave della partecipazione da questo punto di vista. Stare assieme in uno spazio pubblico ha un enorme valore politico, anche solo per divertirsi e non solo per dissertare sulla Scuola di Francoforte. Oggi viviamo ancora in una epoca pandemica e il divertimento è sempre più commercializzato. Occorre una quadra diversa.

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