Per una scuola che educa alla vita per dare senso alle relazioni
- Alberto Piccioni

- 6 ott
- Tempo di lettura: 3 min
Intervista a Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, presidente della Fondazione Minotauro di Milano. Qui demolisce i luoghi comuni e invita gli adulti a ridare senso alla relazione. Ha dedicato la sua carriera all'ascolto e all'analisi del mondo adolescenziale.

"Chi sei tu?" È la domanda che nessuno fa più, ai figli e agli studenti. In una società che valuta le risposte e non la qualità delle domande, la scuola è diventata un luogo dove l'apprendimento muore. Matteo Lancini demolisce i luoghi comuni e invita gli adulti a un atto di coraggio: ridare senso alla relazione. Psicologo e psicoterapeuta, presidente della Fondazione Minotauro di Milano, Lancini ha dedicato la sua carriera all'ascolto e all'analisi del mondo adolescenziale promuovendo l’idea di una scuola che educa alla vita. Nel suo libro ‘Chiamami adulto’ (Raffaello Cortina editore), il cui titolo dà il nome anche al suo intervento, rompe con i luoghi comuni: il problema non è l'eccesso di libertà o di affetto, ma una profonda crisi di senso e di relazione.
Nel suo ultimo saggio, lei sostiene che il disagio e la violenza giovanile non derivano da un eccesso di affetto o libertà, ma dalla mancanza di una relazione autentica. Cosa intende?
Quando mettiamo al mondo i figli, stipuliamo un patto: saranno ascoltati, amati, voluti. Un patto che rompiamo subito, nel momento in cui esprimono emozioni che ci disturbano. Il vero problema è che gli adulti non vogliono che i bambini rompano le scatole con emozioni come la paura, la tristezza o la rabbia. Queste emozioni vengono negate ai bambini per proteggere noi, non loro. E poi, in adolescenza, esplodono. Ci raccontiamo di averli protetti, ma in realtà chiediamo a loro di proteggere noi dalle nostre frustrazioni. Un conto è sentirsi soli in una famiglia che mantiene le distanze, un altro è sentirsi soli quando quella stessa famiglia dice di fare tutto per te.
Nel suo lavoro, lei insiste sulla necessità di stare con i giovani, non di fare per loro. Questo concetto, applicato alla scuola, si traduce nella proposta di valutare gli studenti non solo per le risposte che danno, ma per la qualità delle domande che pongono. Può spiegarci il senso di questa nuova prospettiva?
Il problema è che si continua a prendere provvedimenti sporadici per gli adulti, come il divieto di usare i cellulari, non per gli studenti. Sappiamo da vent'anni come dovrebbe essere la scuola, ma nessuno ha il coraggio di attuare i cambiamenti, perché tra i politici vige il detto "chi tocca la scuola italiana ha perso le elezioni". La scuola per materie non ha più senso. La valutazione numerica serve solo a liquidare gli studenti e a togliere autorevolezza agli insegnanti. Il vero apprendimento si costruisce con le domande degli studenti. Se un professore rispondesse a una domanda anziché pretendere di riempire un vuoto, si renderebbe conto che il vero potere sta nel co-costruire il sapere.
A proposito di sessualità: lei afferma che il corpo dei giovani è diventato un mezzo per essere visti e riconosciuti, non più per un'espressione edipica. Che implicazioni ha questa centralità del corpo estetico?
È una delle più grandi rivoluzioni che ho visto in trent'anni di lavoro. Oggi il sesso è in calo tra i giovani, non è più un tabù. Il problema non è più la sessualità ma l'estetica. Internet ha amplificato questa tendenza, ma la nostra è una società dove contano la bellezza e la popolarità. Se a questo si aggiunge la possibilità della procreazione assistita, che svincola la sopravvivenza della specie dall'atto sessuale, si capisce come la coppia non abbia più un significato di progettualità. I giovani si adattano al mondo che abbiamo creato e noi li accusiamo di essere individualisti. L'apparire e il successo sono i modelli che noi stessi abbiamo imposto.
Nel suo libro, lei sostiene che la violenza giovanile non è riconducibile solo al patriarcato, ma al vuoto identitario e alla carenza affettiva. Condivide la condanna al sistema patriarcale e maschilista?
Lavoro da anni con progetti che supportano gli orfani di femminicidio e combatto la violenza di genere. Dico una cosa diversa: non possiamo leggere le nuove forme di violenza giovanile come fossero delitti d'onore del 1950. Chi lavora con i giovani sa che certi comportamenti, come il controllo delle chat, non sono solo retaggi del patriarcato, ma sono legati a un vuoto e a una paura di perdere il riconoscimento. Le canne, ad esempio, non sono più un atto trasgressivo, ma un lenitivo per la solitudine e il disagio. Se non intercettiamo la cultura affettiva di questa generazione, i nostri interventi preventivi sono inefficaci e dannosi.
"I giovani si adattano al mondo che abbiamo creato e noi li accusiamo di essere individualisti. L'apparire e il successo sono i modelli che noi abbiamo imposto. Lavoro a progetti che supportano gli orfani di femminicidio e combatto la violenza di genere; per questo non possiamo leggere le nuove forme di violenza giovanile come fossero delitti d'onore del 1950."



